La crocifissione
La santa Sindone di Torino

 

Antonello da Messina, Crocefissione (1475, National Gallery, London)
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La crocifissione come pena capitale era diffusa nel mondo antico presso varie popolazioni (Persiani, Cartaginesi, Fenici, Greci, Romani), inflitta in diverse forme e destinata, negli usi dei singoli popoli, a personaggi di varia estrazione sociale e militare.

Presso i Persiani ed i Cartaginesi era riservata a funzionari e capi militari di alto rango o a sobillatori di sommosse, mentre presso i Romani veniva utilizzata come supplizio per gli schiavi, i criminali violenti ed i ribelli delle provincie ostili, come la Giudea.

La crudeltà della crocifissione pubblica era utilizzata come mezzo fortemente deterrente per dissuadere dal commettere reati o azioni violente, e, nello stesso tempo, permetteva ai più forti di sfogare ogni istinto di violenza sui più deboli con forme di sadismo inimmaginabili.

Il condannato alla crocifissione perdeva ogni diritto e dignità e diventava oggetto di qualsivoglia tortura o scherno, offerto nella sua nudità al ludibrio e al pasto delle bestie e spesso privato della sepoltura.
La crocifissione non era utilizzata per dare una morte rapida; al contrario, rispondeva alla esigenza macabra di dare una morte lenta e quanto più dolorosa possibile.
Quando l'agonia si protraeva, i carnefici acceleravano la morte o producendo un denso fumo sotto la croce o trapassando con un colpo di lancia il corpo o ricorrendo al crurifragium, ossia la rottura delle ossa delle tibie o dei femori a colpi di clava.

Gli autori antichi citano la crocifissione, ma non riportano mai i tormenti e le modalità della morte del crocifisso, in quanto il supplizio era di tale efferatezza che anche la semplice descrizione incuteva una forma di paura:

nomen ipsum crucis absit non modo a corpore civium Romanorum sed etiam a cogitatione, oculis, auribus
il nome stesso di croce deve restare lungi non solo dal corpo dei cittadini romani, ma anche dai loro pensieri, dai loro occhi e dal loro orecchio
Cic., Pro Rabirio, 16

θανάτων τὸν οἴκτιστον
la più miseranda delle morti
Flavio Giuseppe, Bell. Jud., 7,203

crudelissimi taeterrimique supplici
del più crudele e orribile supplizio
Cic., In Verrem, 2,5,165

È di Seneca l'unica descrizione della morte del crocifisso tra i tormenti:

Invenitur aliquis qui velit inter supplicia tabescere et perire membratim et totiens per stilicidia emittere animam quam semel exhalare? Invenitur qui velit adactus ad illud infelix lignum, iam debilis, iam pravus et in foedum scapularum ac pectoris tuber elisus, cui multae moriendi causae etiam citra crucem fuerant, trahere animam tot tormenta tracturam?
Si trova uno il quale voglia struggersi lentamente tra i tormenti e morire membro a membro e mandar fuori l'anima tante volte a goccia a goccia piuttosto che spirare una volta sola? Si trova chi, confitto a quel triste legno, già esausto, già deforme e sconciamente gobbo nel dorso e nel petto, voglia trascinare una vita accompagnata da tante sofferenze, pur avendo avuto, anche prima della croce, molte cause di morte?
Sen., ad Luc., 101,14 (trad. di U. Boella)

Presso i Giudei la crocifissione non era conosciuta come pena capitale, ma l'affissione al palo era una pena addizionale inflitta dopo la morte e che assumeva il significato di dichiarare il giustiziato come maledetto da Dio:

κεκατηραμένος ὑπὸ Θεοῦ πᾶς κρεμάμενος ἐπὶ ξύλου

maledictus a Deo est qui pendet in ligno

Chiunque venga appeso al palo, è maledetto da Dio
Deut. 21,23


Questa maledizione venne dai Giudei estesa a coloro che venivano crocifissi, per cui se già la crocifissione era considerata la morte più disonorevole, si aggiungeva anche il marchio della maledizione divina. E ciò spiega anche la insistenza nel chiedere la crocifissione per Gesù.

Molto si è discusso sulla causa terminale di morte del soggetto sottoposto alla pena della crocifissione.
La maggioranza degli studiosi propende per la morte per asfissia o per shock ipovolemico o per l'agire contemporaneo dei due meccanismi.
Non abbiamo ovviamente modelli sperimentali e, quasi sempre, indagando sulle cause di morte dell'Uomo della Sindone si è condotta un'operazione di trasposizione dei testi evangelici sulla ricerca sindonica, a volte confortando risultati derivanti da elementi di medicina legale ricavabili dalla Sindone con le scarse notizie dei Vangeli e viceversa.

Questa breve introduzione è la premessa al presente lavoro, che indubbiamente non apporta nulla di nuovo a quanto già pubblicato in maniera esauriente, anche se non definitiva, sull'argomento, ma aggiunge soltanto una rapida riflessione.
Come punto di partenza si vuole individuare la causa di morte del cadavere avvolto nella Sindone e, poi, ragionare sulla possibilità che questa causa possa essere coerente con i racconti evangelici.

   
Capo                                                               Polso sinistro                                                         Piede destro
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La Sindone presenta l'immagine del cadavere di un uomo con le seguenti caratteristiche:

a) segni di una crocifissione: inchiodatura del polso sinistro e inchiodatura dei piedi (verosimilmen-      te con un unico chiodo)

b) segni di una tumefazione dello   zigomo destro   con ematoma periorbitale e segni di una tumefa-      zione di minore intensità dello zigomo sinistro

c) segni di frattura delle ossa nasali

d) ferite multiple verosimilmente puntiformi del cuoio capelluto e della fronte

e) lesioni da corpo contundente   (flagrum)   distribuite su tutta la superficie corporea sia anterior-      mente sia posteriormente, tranne che sull'aia cardiaca

f) lesione da compressione sovrascapolare destra   e   sottoscapolare sinistra (trasporto del patibu-     lum)

g) segni di lesione escoriativa del ginocchio sinistro

h) segni di un aumento dei diametri de torace fissati in inspirazione dal rigor mortis

i) ferita da taglio (postmortale) al V spazio intercostale destro

È evidente che siamo di fronte al cadavere di un uomo che, prima di essere posto in croce, ha subito sevizie e torture di notevole gravità, che gli hanno procurato un politraumatismo severo.
Sebbene non sia possibile stabilire il numero esatto di colpi di flagello, tuttavia le lesioni provocate dalle biglie, verosimilmente metalliche (due sfere unite da un braccio), sono riportabili ad un numero di 159 sulla superficie anteriore e ad un numero di 213 sulla superficie posteriore, per un totale di 372 lesioni.
È evidente che un tale tipo di politrauma non può essere limitato soltanto a lesioni superficiali e a perdita ematica, ma deve aver causato con ogni probabilità lesioni interne (emotorace, contusioni polmonari, epatiche e renali), che di per se stesse possono essere causa di morte.

     
Fonte: B. Faccini - G. Fanti (cliccare sulle immagini per ingrandirle)

Già Cicerone, parlando della verberatio (meno grave della flagellatio) inflitta in Sicilia da Verre ad un cittadino romano (In Verrem, 2,5,165), dice:

sex lictores circumsistunt valentissimi et ad pulsandos verberandosque homines exercitatissimi, caedunt acerrime virgis; denique proximus lictor, de quo iam saepe dixi, Sextius, converso baculo oculos misero tundere vehementissime coepit
lo circondano sei littori robustissimi ed espertissimi a battere e percuotere uomini; lo colpiscono crudelissimamente con le verghe; alla fine il primo littore Sestio, di cui ho già parlato, rovesciato il bastone, cominciò a pestare con somma veemenza gli occhi al misero

Costui, essendoglisi riempiti di sangue il viso e gli occhi, cade giù; ma, nonostante tutto, gli si pestano i fianchi anche dopo stramazzato, affinché una buona volta dica di promettere. Ridotto in tale stato, per allora fu portato via di là come morto; poco dopo morì (In Verrem,II,5,54):

Itaque ille, cum sanguis os oculosque complesset, concidit, cum illi nihilo minus iacenti latera tunderent, ut aliquando spondere se diceret. Sic ille adfectus illim tum pro mortuo sublatus perbrevi postea est mortuus

Gli elementi che offre la lettura dell'immagine sindonica, sebbene non possano essere determinanti per risalire alla causa certa di morte, tuttavia possono sufficientemente confortare alcune ipotesi, delle quali ci soffermeremo su quella che a mio avviso potrebbe considerarsi la più verosimile e la più realistica.

La modalità e l'intensità del trauma provocato dalla flagellazione possono essere alla base di lesioni, non soltanto superficiali, ma anche di organi interni, che avrebbero potuto essere la causa di morte a distanza, a prescindere dalla crocifissione.
Il traumatismo provocato dai colpi ripetuti del flagrum hanno causato sul corpo dell'Uomo della Sindone lesioni in rapporto alla estensione del corpo contundente, alla sua forma ed alla forza con la quale ha impattato i tessuti.
L'immagine sindonica mostra i segni chiari di gravi lesioni sull'epidermide con multiple soluzioni di continuo ed perdite ematiche.

Da tener presente, contestualmente a tali segni oggettivi, anche il dolore, definito come il completamento psichico di un imperioso riflesso protettivo, che agisce per mezzo di sistemi neurofisiologici specifici ed è causa di reazioni a livello dei nervi periferici, dei nervi cranici, del talamo e della corteccia; la febbre (per liberazione di sostanze piretogene); lo shock.
Il traumatismo dei colpi di flagrum, considerando la forza di impatto che deve essere stata utilizzata, proprio per il numero dei colpi inferti, non può non aver provocato lesioni di organi interni, in primo luogo, in considerazione della estensione della superficie dorsale e toracica interessata, fratture costali, contusioni o lacerazioni polmonari, emotorace e, anche se meno frequentemente, sindrome linforragica.
Se a tali lesioni si aggiungono le ferite puntiformi del cuoio capelluto, con ulteriori perdite ematiche e stimoli algogeni, la frattura della ossa nasali (presumibilmente verificatasi durante il percorso verso il luogo della crocifissione, con possibili fratture costali da schiacciamento sotto il peso del patibulum), l'immagine mostra il chiaro quadro di un politraumatismo severo che condiziona negativamente la prognosi quoad vitam.

Il trauma della crocifissione con ogni probabilità ha accelerato l'esito mortale: il dolore lancinante della perforazione dei polsi e dei piedi, l'ipercapnia da insufficienza respiratoria hanno senza dubbio ridotto i tempi dell'agonia.
Il movimento di sollevamento e di accasciamento, evidenziato dalla direzione della macchia di sangue sul polso sinistro, deve aver provocato l'emergenza di un dolore terebrante che non può non aver provocato un arresto cardiaco primitivo con meccanismo nervoso riflesso (riflessi vagali), insorto anche in presenza di condizioni di ipossia e ipercapnia.
Mons. Giulio Ricci ha condotto un attento studio, e per ora unico, goniometrico, in base al quale ha dimostrato che l'angolo tra le due colature di sangue sul carpo sinistro di 35° e l'angolo tra la prima colatura e l'asse dell'avambraccio di 48° corrispondono ad un movimento sollevamento/accasciamento di 30 cm. (diversa- mente da Barbet).
Ora, se solo si pensi al dolore causato dal movimento del carpo sul chiodo a sezione certamente quadrata, ci si rende conto a quale sofferenza e fatica fisica sia stato sottoposto l'Uomo della Sindone.
La fatica fisica e la contrattura tetanica spiegano anche la rigidità cadaverica precoce (statuaria).

La ferita al V spazio intercostale non apporta elementi ulteriori: è una ferita post-mortale, inferta, presumibilmente, come accertamento di morte, con la punta di un'asta, arma in dotazione agli auxilia.
Da una verifica della letteratura, quest'arma aveva una lunghezza, dalla punta alla testa del codolo, variabile, secondo la forma, da 4,5 a 10 cm, e l'asse maggiore nel senso della larghezza cadeva a circa due terzi sull'asse della lunghezza. Ne dovrebbe derivare, in base alle dimensioni della ferita al costato, 4,5 x 1,5 cm, che il colpo di lancia non fu inferto per uccidere, in quanto difficilmente avrebbe raggiunto il cuore, essendo dovuta penetrare per almeno 8,5 cm.
La macchia di sangue sul dorso (cintura di sangue) deve essersi formata in posizione supina, durante la deposizione, per la fuoriuscita di materiale ematico e sieroso (emotorace?).

Da tale analisi si può ragionevolmente concludere che la causa di morte può essere ricondotta ad un arresto cardiaco primitivo, che può verificarsi in conseguenza di traumi toracici diretti o di traumatismi generali, con meccanismo nervoso riflesso.

Questa è soltanto una ipotesi e non certamente l'unica.
Se, però, si osserva attentamente il negativo del volto sindonico, si percepisce immediatamente un dato (quello che descrisse Secondo Pia, che fu il primo in assoluto ad osservarlo): l'estrema compostezza dei lineamenti fisiognomonici che dimostrano un atteggiamento di serena maestà.

Questo rilievo è di estrema importanza: l'Uomo della Sindone, sebbene mostri oggettivamente i segni di gravi sevizie, tuttavia non fa trasparire nessun segno soggettivo di terrore, di paura, di angoscia; quel volto ci appare come quello di un Uomo che lucidamente domina la situazione.
Non è il volto spento di un comatoso, di uno che ha fame d'aria, di uno che non ha più forza.
È il volto di un Uomo di una forza straordinaria, che non è soggetto passivo, ma il protagonista di un evento di cui Egli, in quel momento, conosce la portata, per cui ne scandisce, pur nell'ambito delle leggi della natura, i ritmi.

Ecco perché l'individuazione della causa della morte nell'arresto cardiaco primitivo, compatibile con le lesioni rilevabili, può essere ampiamente giustificata.

A questo punto possiamo porci la domanda: le lesioni dell'immagine sindonica, così descritte, possono essere coerenti con i racconti evangelici della morte di Gesù?

I Vangeli, redatti alcuni decenni dopo la morte di Gesù, sono molto scarni nel rappresentare le Sue ultime ore di vita e non hanno la finalità di fornirci dati medico-legali, ma, al contrario, si preoccupano di tramandare la storia della salvezza e, quindi, di racchiudere simbolismi teologici.
Spesso si tenta di trarre elementi di medicina legale dalla descrizione degli Evangelisti, che non avevano questo interesse, anzi cercano di nascondere l'intensità della sofferenza.
È indubitato che il racconto della passione e le sevizie subite da Gesù si accordano perfettamente alle lesioni evidenti sull'immagine dell'Uomo della Sindone.
La flagellazione con le modalità riscontrate sulla Sindone, la coronazione di spine, le offese nel Pretorio, la caduta sulla Via Dolorosa, la crocifissione così come riportate dagli Evangelisti sono pienamente coerenti con le lesioni riscontrate sull'Uomo della Sindone.
Dobbiamo, quindi, ricavare che Gesù, al momento di essere inchiodato sulla croce, doveva presentare un quadro clinico sovrapponibile a quello descritto per l'Uomo della Sindone.
Ora si tratterebbe di ipotizzare la causa della morte di Gesù, analizzando gli elementi essenziali offerti dai Vangeli, evitando di interpretare i simbolismi teologici come dati di natura medico-legale.

Gesù sulla croce, essendo limitato negli atti respiratori, pronuncia sette brevi frasi nell'arco delle tre ore di agonia, dall'ora sesta all'ora nona:

1) Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt (Lc 23,34)

2) Hodie mecum eris in paradiso (Lc 23,43)

3) Mulier, ecce filius tuus (Gv 19,26-27)

4) Deus, Deus meus! Ut quid dereliquisti me? (Mc 15,34)

5) Sitio (Gv 19,28)

6) Consummatum est! (Gv 19,30)

7) Pater, in manus Tuas commendo Spiritum Meum! (Lc 23,46)

Queste brevi frasi, pronunciate nella limitazione di una insufficienza respiratoria, in uno stato algico di rara intensità, dimostrano in maniera inequivocabile l'integrità del sensorio: Gesù era in piena coscienza.
Questo dato deve escludere ogni causa di morte preceduta da un livello di coma o, comunque, di sensorio obnubilato.

Ciò è suffragato anche dal fatto che Gesù pronuncia (Mc 15,34) ad alta voce il primo verso del Salmo 22, che si conclude con: «Ecco l'opera del Signore», come a voler porre sulla Sua morte il sigillo della salvezza.

Gesù, quindi, è in condizioni di piena lucidità.
Gli ultimi istanti di vita di Gesù sono così descritti:

Iesus autem, emissa voce magna, exspiravit (Mc 15,37)

Iesus autem iterum clamans voce magna emisit spiritum (Mt 27,50)

Et haec dicens, exspiravit (Lc 23,46)

Et, inclinato capite, tradidit spiritum (Gv 19,30)

Alcuni studiosi hanno voluto interpretare il grido di Gesù come l'espressione del dolore per rottura del cuore (in seguito ad infarto del miocardio), con la conseguente formazione dell'emopericardio e la successiva fuoriuscita di sangue dissierato in seguito al colpo di lancia.
Una prima osservazione, suggerita dalla lettura dei testi evangelici: non vengono mai descritti i lamenti di sofferenza di Gesù, sia per non marcare a posteriori la natura umana del Salvatore, sia per non indulgere su aspetti macabri, sia perché effettivamente Gesù sopportava in silenzio le sofferenze.
Quindi, non si comprenderebbe la descrizione di una manifestazione dolorosa alla fine del racconto della passione, quando si sono eventualmente sottaciuti i possibili gridi di sofferenza emessi come difesa dal dolore lacerante nei tempi precedenti.
D'altra parte, sul piano esegetico, il grido (voce magna) può riferirsi anche alla recitazione del versetto del Salmo 22, che precedette il momento della morte.

In conclusione l'ipotesi di rottura del cuore non è sostenibile.
La morte per asfissia, come per lo shock ipovolemico, sarebbe stata preceduta da uno stato di incoscienza di durata non valutabile: quindi poco probabile.
Anche il colpo di lancia al costato, inferto dal soldato che, secondo la tradizione, era già toccato dalla Grazia, accertò la morte di Gesù con un colpo teso non a uccidere (gli eventi meteorologici e geologici avevano certamente provocato nei soldati romani uno stupore vicino al rispetto per Gesù crocifisso), ma solo, evidentemente, ad accertare l'assenza di risposte vitali, anche in base alle considerazioni, prima esposte, sulle dimensioni della lama della lancia.
Ciò spiegherebbe anche la circostanza che non fu applicato sul corpo di Gesù il crurifragium, come per i due ladroni: fu il rispetto per la persona? Fu la certezza della morte? Fu per accedere alla richiesta degli Amici di Gesù?

È pensabile che la lancia abbia perforato la pleura e provocato la fuoriuscita di sangue.
Giovanni, senza dubbio, a distanza di tempo, ha voluto caricare questa scena (il colpo di lancia e la fuoriuscita di sangue ed acqua) di un significato profondamente teologico.
E, comunque, la descrizione di Giovanni non apporta elementi determinanti circa la causa della morte; può, tuttavia, segnalare una lesione (emotorace) organica presente nel corpo di Gesù.

In conclusione, dopo questa riflessione, mi pare che l'arresto cardiaco primitivo, come già descritto in precedenza, può rendere ragione della morte rapida di Gesù, della sua lucidità fino alla fine e del precoce stabilirsi del rigor mortis.
In ultimo, la tesi argomentata rende sovrapponibili le lesioni patologiche e la causa della morte dell'Uomo della Sindone con quelle si Gesù.
Mi preme, a conclusione di questa riflessione, sottolineare una questione di non secondaria importanza: noi, con le nostre possibilità logiche e capacità intellettive, procediamo per categorie; nel caso di Gesù in croce non riusciamo, per la finitezza di esseri umani, a comprendere il dinamismo dell'unicità della natura divina e quella umana.
Ne consegue che in Gesù vediamo ora l'Uomo, ora Dio. L'agire dell'Unità ci riesce di difficile comprensione.
E questo è il mistero della Fede.

 

Walter Memmolo

 

Bibliografia

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•  Ricciotti G., Vita di Gesù Cristo, Milano, Mondadori, 1989
•  Seneca L. A., Lettere a Lucilio, a cura di Umberto Boella, Torino, 1969

 

«Tuam sindonem veneramur, Domine, et tuam recolimus passionem»
La nuova teca in cui è riposta la Sindone
                   
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